«Da quanto tempo sei in analisi per la tua depressione?»«Diciotto anni»
«Diciotto anni? Ma è tantissimo!»
«Non hai capito: da quando avevo 18 anni. Ora ne ho sessantanove»

Era il 1965. Avevo 17 anni. Tutto andava bene, ma all’improvviso ci fu una nuvola nera, come se si fosse spenta la luce. A scuola ero molto brava, ma di colpo non avevo più voglia di studiare. I libri, i compiti da svolgere erano diventati montagne insuperabili. Non m’importava neanche dell’esame di maturità: proprio a me, così brillante, un anno avanti ai miei compagni. Anche giocare a tennis aveva perso ogni attrazione. Improvvisamente mi sentivo vuota, chiusa, inerte, assorta in uno sguardo interiore sempre più cupo. Intorno a me tutto era diventato sfocato, lontano, ma non capivo che cosa mi stesse succedendo, e neanche i miei genitori: pensavano che fossi preoccupata per l’esame. E quando fu passato (anche con bei voti) mi mandarono a sciare per un po’.

Poi, di nuovo tutto bene: università a gonfie vele, matrimonio felice in una città nuova, la prima figlia a 25 anni. Finché non accadde qualcosa che ricordo ancora con estrema nitidezza. Ero seduta accanto alla mia meravigliosa bambina di appena un mese, finalmente guarita dalle piccole complicazioni alla nascita. All’improvviso mi sentii strana, molto triste, avvertendo nettamente il peso implacabile di una realtà che in quell’istante mi appariva desolatamente vuota. E avevo mia figlia accanto! Abbassai gli occhi verso la moquette blu e fu come cadervi dentro. Un pozzo buio, solitario e profondo. Che mi catturò completamente.

Cominciò così. Furono anni difficili, nonostante la nascita di un secondo bebè, una vita agiata, aiuti domestici, vacanze, amici nuovi. Certo, mio marito era molto preso dal lavoro e non incline a grandi tenerezze. Mi sentivo in una trappola di ovatta. Tuttavia, mentre i bambini crescevano, niente giustificava quello che a poco a poco diventò il mio comportamento abituale.

La mattina non mi alzavo dal letto e odiavo l’idea di lavarmi e vestirmi, ma nessuno pareva accorgersene: non certo i miei genitori, che abitavano in un’altra città; non certo mio marito che, uscendo per andare in ufficio, mi lasciava addormentata e quando tornava per il pranzo mi trovava ancora in vestaglia. Però a tavola tutto era pronto, che problema c’era? La domestica non si permetteva di pensare niente, se non che la signora era pigra e viziata. Il pomeriggio mi trascinavo a scuola a prendere i bambini per poi accompagnarli ai giardini. Con loro ero sorridente, perfino allegra e affettuosissima. Una brava mamma, una brava persona, pronta ad aiutare tutti.

Spesso, però, non stavo bene, mi sentivo addosso qualche strano malanno, e allora dovevo correre dal medico, fare esami, prendere medicine. Guarivo da un sintomo e subito ne iniziava un altro. E avevo paura. O meglio, ero terrorizzata. Soprattutto se si ammalavano i bambini.https://ae9527b4dc10946aa3965c210a29ae15.safeframe.googlesyndication.com/safeframe/1-0-38/html/container.html

Poi cominciarono gli attacchi di panico: il primo fu una sera mentre guardavamo la televisione seduti tutti e quattro sul divano sotto un unico plaid. Il cuore in gola, un sudore gelido, un terrore dilaniante. Poi successe al ristorante: mi alzai di scatto gridando che stavo per morire. Poi ancora in aereo e mentre guidavo da sola in autostrada verso un’altra città. E infine nella casa di montagna, dove capii con certezza che non volevo più vivere e cercai davvero di uscire una volta per tutte da quella mia esistenza alienata. Allora, con un certo imbarazzo, anche mio marito dovette prendere atto che la mia non era solo pigrizia o stranezza, ma davvero c’era qualcosa che non funzionava. Subito un ricovero, farmaci pesantissimi, ma stavo così male che allo psichiatra sembrai semideficiente. Me li sospese e mi spedì in analisi.

La terapia analitica a poco a poco fu una grande presa di coscienza di me come persona e delle mie dinamiche interiori. Una storia nel complesso molto positiva ma lunga, durata anni, e che si rivelò insufficiente. Non certo per colpa dei professionisti a cui mi rivolsi. Tre anni con il primo, con formazione freudiana e junghiana. Mi ripresi bene. Una ricaduta (con overdose di sonniferi) e passai a un eminente junghiano. Dopo due anni mi disse bruscamente che non poteva fare più niente per me, in pratica mi buttò via.

Nuova disperazione. Fu la volta di un’anziana junghiana, molto quotata. Mi capiva, mi consolava, ma quella non era analisi. Dopo otto anni, una sera mi telefonò in lacrime chiedendomi perdono (sì, esattamente come racconta Woody Allen in Manhattan). E finì lì. Poi ci fu un caposcuola freudiano, molto severo: otto anni di lettino, due volte alla settimana. Mi sentii decisamente meglio e mi permisi di vivere per diverso tempo senza scorta. Fino alla seguente, violenta ricaduta senza alcun apparente motivo.

Fu lì che, di nuovo disperata, come ultima spiaggia mi rivolsi a uno psichiatra.

La diagnosi fu immediata e lampante: una carenza di serotonina, da combattere con citalopram. Bastarono 10 gocce tutte le sere per sciogliere la mia oscurità interiore. Un miracolo. Rividi la luce. Da allora non le ho più lasciate.

Nella lunga storia della mia depressione, le componenti salvifiche sono state la psicoterapia e i farmaci. Senza i quali (e oggi è riconosciuto anche dagli psicoterapeuti) non è possibile curare le disfunzioni organiche alla base di questa malattia. Ma certamente, nel mio caso c’è stato un terzo elemento che considero la mia salvezza: il lavoro.

Presi al volo una proposta casuale e, benché non avessi una preparazione specifica, mi misi d’impegno anche nelle mansioni più modeste. Scoprii che era elettrizzante far parte di un gruppo in cui non avevo i ruoli di moglie e madre. Qui ero una persona creativa in sinergia con altre persone. La mattina dovevo alzarmi e correre per bambini e lavoro, in casa avevo meno aiuti (mio marito aveva sofferto troppo, si era rifatto nel frattempo una vita per conto suo), in contemporanea avevo l’analisi. Correvo sempre. Ma ce la facevo, con la meravigliosa sensazione di «manifestarmi» in qualcosa di mio. Amavo scrivere i miei articoli, fare la giornalista e sentirmi parte del mondo reale.

Al lavoro ho sempre cercato di andare d’accordo con tutti, indipendentemente da grado e mansioni, guardando alle persone al di là dei ruoli. La mia scoperta più bella negli anni è stato il sentirmi in connessione con la vita senza gettare via nemmeno un briciolo di umanità. Ovvero accogliendo e ricambiando ogni contatto «umano», anche casuale: il sorriso del barista, il grazie all’autista dell’autobus che mi ha aspettata al termine della mia corsetta, le due parole sorridenti scambiate mentre si è in coda all’ufficio postale. Banalità, delle vere inezie, che diventano però i fili di una rete di salvataggio umano.

E poi, il meraviglioso mondo delle amiche. La vera «famiglia», il gruppo di persone con affinità elettive, scelte da noi. Per scambiare confidenze, ricordi, dolori, risate. Per aiutarsi a vicenda con affetto consapevole.

Storia presa da Vanity Fair.

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